
Giovanni Paolo Magistri
Non sono un esperto di pittura, ma semplicemente cresciuto per molti anni tra il luccichio dei colori ad olio e l’odore della trementina, nascondendomi per gioco, a sua insaputa, dietro la porta dello studio.
Lo ricordo nella gestualità dell’ennesimo colpo di pennello quasi volesse esorcizzare, con un tocco, quello che fino a quel momento non gli era riuscito traslare dalla sua mente alla tela.
Quando dipingeva parlava a voce alta, piccole esclamazioni che traducevano chiaramente lo stato emotivo interiore: non giraaa! non giraaa! Il che cosa “non girasse” era quasi di certo una parte di dipinto che stentava ad assumere la “forma significante” (Nigel Warburton, La questione dell’arte, Piccola Biblioteca Einaudi).
Ad una mostra di Lucio Fontana, una persona a lui sconosciuta, mormorò a voce alta: quello lo so fare anch’io.
Si voltò e rispose indispettito: “ammettendo anche di non dubitare delle sue capacità, alla fine Le rimarrà soltanto la magra consolazione di aver copiato quel quadro”.
Dipingeva anche quando non dipingeva, ogni attimo della sua vita era sempre votato a cogliere quanto fosse interessante trasferire su una tela.
Quando era costretto a trascurare la pittura diventava irrequieto, cupo, scontento di sé e architettava il possibile per tornare al più presto tra i suoi colori e il suo mondo.
La vita l’ha vissuta come una continua lettura, ritenendo che, là dove si realizza un “dramma”, esiste la possibilità di cogliere il “significato primario” della nostra esistenza.
Spietato nel giudicare sé stesso ma incoraggiante nei confronti di chi volesse fare della pittura, per lunghi anni apprezzato solo da pochi, ha concluso la sua vita dipingendo sino alle sue ultime ore, un quadro che aveva sempre avuto in mente.
Se amare profondamente “qualcosa” spesso significa esserne gelosi, facilmente vulnerabili e influenzabili poiché siamo portati a raccogliere tutte le nostre forze affinché il “qualcosa amato” possa continuare a trasmetterci tutte le emozioni che solo noi pensiamo d’avvertire nella loro pienezza, allora mio padre era innamorato della “pittura”.
Riteneva che qualora si fosse cimentato nel tentativo di farsi apprezzare come pittore avrebbe dovuto cedere alle lusinghe dei mercanti d’arte, che gli avrebbero fornito un guadagno a scapito della libertà d’espressione, forzandolo a dipingere quadri che in quel o tal’altro momento corrispondevano maggiormente alle aspettative dell’acquirente.
Relegò così la sua pittura a puro hobby di serio professionista “fuori dalle linee”, sacrificando la maggior parte del tempo libero da impegni lavorativi di sussistenza, come se si cimentasse realmente nel mondo dell’arte pittorica.
È così che vedendo oggi i suoi dipinti ci accorgiamo quanto essi siano scevri da “forzature” e vincoli “di corrente” spaziando inaspettatamente da uno stile post espressionista a rappresentazioni, anche se poche, cubiste.
Lo stile è in mio padre utilizzato essenzialmente come mezzo e non fine, per trasmettere un messaggio.
Si avverte in ogni suo quadro il “pathos” vissuto e trasmesso come un racconto, ovvero non rappresentazione sotto forma di “fotogramma di un momento” ma il “racconto di quel momento”.
Se si analizza con attenzione il quadro “deposizione” non si può altro che scorgere tutta una serie di altri significati che vuole costringerci a considerare e che sono apparentemente collaterali all’evento principale ma che in ultima analisi rappresentano il cuore dell’emozione provata dai soggetti in causa nell’opera.

La deposizione del Cristo è in qui “sentita” con un valore aggiunto: la “rigenerazione”.
Il monte Calvario è abbozzato sullo sfondo scuro, in alto a destra si intravedono le tre croci, come se volesse volutamente allontanare l’attenzione dell’Osservatore dall’evento “crocifissione”.
In primo piano, dirompente, la rappresentazione di due figure, la Madonna e il Cristo.
La Madonna, supina, in posizione poco “usuale”, le gambe sono divaricate, con il Cristo accolto tra esse.
La Madonna (madre) tenta idealmente di riaccogliere il Cristo (figlio) nel proprio ventre nel disperato tentativo di ridonargli la vita (rigenerazione/resurrezione).
Ambedue hanno il volto senza fronte, segno voluto di impotenza di fronte all’evento morte, impossibilità di porre rimedio “razionale” al compiuto.
La gamba destra del Cristo mantiene una sorta di vitalità che sembra dare la possibilità a rialzarsi per volontà non dovuta al resto del corpo (resurrezione).
Le molteplici religioni che hanno influenzato o influenzano ancora oggi la percezione umana della vita posseggono, se analizzate profondamente, tutte un minimo comune denominatore di valori sui quali mio padre ci spinge a riflettere nel tentativo di far avvertire, nel suo messaggio, una proposta di “universalità di pensiero”.
È così che nei suoi dipinti, soprattutto quelli relativi all’ultimo periodo, sussiste manifesto il continuo tentativo di cogliere e trasmettere l’”essenza” e non la “dinamica materialità” degli eventi che accompagnano il vissuto.

Nel dipinto “Donna che affetta l’anguria” ci dona una ulteriore dimostrazione della sua volontà di pittore che intende, partendo da uno spunto apparentemente intriso di quotidianità, ricavarne un valore universale.
La rotondità del volto e dei seni della donna, così come il resto dello stesso corpo, si coniugano, spingendo l’attenzione al confronto, con la rotondità del frutto anguria.
Anche le tinte utilizzate, fondamentalmente tre, ci portano a considerare una “unione” tra i “soggetti tema” del dipinto.
Spontanea viene la domanda perché una figura femminile; forse anche questa rappresentazione nella sua essenza vuole richiamare l’attenzione sugli aspetti legati alla potenzialità di governo procreativo della donna?
La lama, stretta nella mano sinistra è inequivocabilmente un affilatissimo rasoio, trasmette senso di “inquieto dilemma”; ha operato un taglio pressoché perfetto sul frutto.
Se idealmente si riavvicinassero le singole parti si riuscirebbe a ricomporre l’intero da cui derivano e la mano destra “trapassa”, senza sforzo, il tavolo sul quale sono appoggiate le parti del frutto.
Il “racconto nascosto” tra le pieghe del dipinto ci porta a considerare gli aspetti legati alla trasformazione della materia; in natura forma e struttura si modificano nel tempo lasciando scorgere un filo conduttore di “unicità materica” tra corpi che sono tali solo e soltanto grazie alla trasformazione e disgregazione di altri corpi.
Il nostro Essere ora, possiede in sé il “fluire dinamico” degli elementi da cui deriva.
Così come lo stile anche il colore è nella sua pittura strumento di dialogo, modo e ricerca per riflettere sugli interrogativi che la vita ci pone inequivocabilmente.

Il dipinto intitolato “causa ed effetto” porta spontaneamente a considerare come tema centrale il disperato tentativo, da parte del bambino, di salvare il pappagallo stretto tra le fauci di un gatto.
In realtà “l’inizio del racconto” parte da una gabbia volutamente dipinta aperta.
Non si tratta di una necessità stilistica ma di “costrizione” a porci un interrogativo: chi ha aperto la gabbia? il bambino, il gatto o paradossalmente lo stesso pappagallo?
Delle tre ipotesi possibili quella dell’auto liberazione da parte dell’uccello pare la più inverosimile.
La possibilità di una azione da parte del gatto altrettanto se si nota che la gabbia è ancora ben salda e affissa alla parete della stanza.
Rimane la terza ipotesi, quella del bambino che volendo vedere per giuoco volare il pappagallo, forse anche per ridonargli inconsapevolmente la libertà, lo conduce altrettanto inconsapevolmente alla morte.
La riflessione di ritenere che ciascuno di noi è inserito in un rapporto di “causa ed effetto” negli eventi della vita ritengo essere la chiave di lettura di quest’opera.
Le sue nature morte rappresentano il desiderio di considerare il “trapasso” non come evento finale drastico. L’oggettiva fine della vita è proposta come “fluire nel tempo” senza demarcazione netta tra “l’essere vivente” e il non esserlo più. Non sono un esperto di pittura, ma dalla porta di quello studio è uscito un arcobaleno magico, che ancor più oggi, colora il mio pensiero.

Eugenia Elisabetta Magistri
Mio padre era sì genio creativo e uomo di grande cultura artistica ma soprattutto era un uomo straordinariamente ricco di valori umani; di questa ricchezza ha fatto il filo conduttore di tutta la sua vita e di ogni suo gesto pittorico.
Sapeva penetrare all’interno delle persone e delle cose con discrezione fino a carpirne l’essenza e tramutarla in espressione pittorica, mettendo a nudo sulla tela gli strati più profondi di chi accettava di farsi ritrarre.
In pochi tratti, magari anche non particolarmente somiglianti nel fisico, si potevano facilmente riconoscere amici o parenti.
Schivo al mondo mediocre non smetteva mai di meravigliarsi per ogni più piccolo “miracolo” della natura nella quale amava inserirsi in silenzio e con rispetto cogliendone il respiro più profondo; i ricordi più belli sono i momenti passati insieme legati al suo amore per essa, quando mi portava con sé a pescare di mattina presto.
Ricordo bene l’aria che si respirava in quelle ore silenziose, come silenziosi erano i pioppeti che attraversavamo per arrivare alle sponde del fiume; il profumo di verde, di muschio e quello delle famigliole di funghi che coglievamo camminando sono rimasti indelebili in me allo stesso modo dell’odore di trementina e dei colori ad olio del suo studio.
Ricordo il senso di pace di quei momenti, la calma e l’energia che si respirava in quei luoghi, il colore profondo dell’acqua e il brillare del sole attraverso le foglie; tutto era come un immenso fantastico quadro.
Non parlavamo molto ma in tutto quel silenzio ho imparato ad ascoltare la natura, ad osservarla e amarla.
Amava gli animali e il regalo più bello fu quando portò a casa un piccolo cucciolo di un improponibile incrocio di cani da caccia; il nostro Tom.
Mi piaceva osservarlo e aiutarlo, o almeno mi illudevo di farlo, quando con abilità da illusionista, con forbici e colle particolari, componeva pagine di grafica; mi piaceva andare con lui in tipografica in quel frastuono assordante di macchine magiche che in un attimo porgevano gentilmente pagine e pagine stampate di fresco e dal piacevole profumo di inchiostro.
La pittura credo fosse per lui quasi una necessità fisica, come l’aria che si respira o l’acqua che si beve, forse un rifugio, il suo modo di dare voce ai tormenti dell’animo e ai sentimenti espressi con il “segno pittorico”.
Il ricordo più bello è quando da piccina mi fece il ritratto; il quadro che amo di più.

Anna Maria Magistri
“Il MIO papà” lo ricordo davanti al cavalletto di pittura avvicinarsi e indietreggiare socchiudere gli occhi, mescolare i colori con meditata attenzione, cercare in oggetti comuni l’ispirazione per composizioni di nature morte; “il MIO papà” perché quando da grandi si ripensa ai propri genitori si torna bambini, il passato riaffiora e diventa presente.
Dipingeva come se avesse una missione da compiere, con severità e modestia nei confronti del proprio operato, ricordo il suo piacere nel dipingere anche in plein air, respirare i colori della natura e trasferirli sulla tela.
Il suo è stato un grande amore per la pittura e per l’arte, entrambe me le ha fatte conoscere molto presto trasmettendomi tutto il suo entusiasmo culturale.
Con lui ho visitato il mio primo museo, la pinacoteca di Brera e ricordo la sua emozione nel varcare l’ingresso del palazzo dove, adolescente, aveva studiato e passato forse i suoi anni migliori in compagnia di ragazzi diventati poi affermati artisti.
Quando da bambina sfogliavo i suoi libri su Cézanne, Rouault, Picasso, Manet e tanti altri Grandi nella storia dell’arte i miei occhi assorbivano i colori, le composizioni e cresceva in me, a mia insaputa, l’amore per tutto ciò che è intelligente espressione artistica; mi arricchivo e formavo.
Mi ha insegnato ad apprezzare l’equilibrio di forme e colori, la comunicazione di valori profondi e manifestazioni di inquietudini epocali sempre presenti nelle opere d’arte che aiutano a capire la vita, il genere umano, le trasformazioni generazionali, spesso anticipandole.
Il suo ricordo, ogni volta che torna, mi è di grande aiuto e conforto.
Grazie Papà.